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mercoledì 15 settembre 2021

Inter-Real Madrid: 0-1. Rodrygo

Partita mai banale, sebbene la posta in palio sia relativa. La scelta dei gironi ha tolto fascino persino a sfide leggendarie. E Inter-Real Madrid è stata sfida leggendaria. A partire dalla vittoria nerazzurra al Prater di Vienna nella finale di Coppa dei Campioni del 1964, quando Sandro Mazzola mostrò al mondo intero di essere degno erede del grande Valentino. Ad ogni modo, stasera si replica, al Meazza. Pronostico aperto. L'Inter sta ancora cercando un nuovo equilibrio, il Real, ora allenato da Ancelotti, è forte ma non fortissimo. Vediamo.

La cronaca.

L'Inter parte meglio del Real. Perisic è in giornata, cosa che in stagione non gli era ancora capitata. Curtois si oppone a Lautaro nel primo tempo e a Dzeko ad inizio ripresa. Anche Brozovic sfiora il gol. Perisic cala e viene sostituito da Dimarco. Entra anche Dumfries per Darmian. Poi, Correa per Lautaro e Vidal per Calhanoglu, sotto tono come contro la Samp. Scende il ritmo della gara. A sette minuti dalla fine entra Vecino per Barella. All'89', la beffa: segna Rodrygo di sinistro, assistito da Camavinga. Non capisco perché Simone Inzaghi abbia tolto Lautaro e non lo sfiatato Dzeko. Non capisco perché abbia sostituito Barella. Sconfitta amara, che Skriniar, migliore dei nerazzurri, ha reso meno pesante. Il buon primo tempo non consola. Anzi.

mercoledì 26 maggio 2021

Addio a Tarcisio Burgnich: eroe della Grande Inter

Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Peirò, Suarez, Corso

Avevo appena finito di ricordare che, 50 anni fa, era scomparso Armando Picchi, libero e capitano della Grande Inter, quando mi sono accorto che era venuto a mancare Tarcisio Burgnich che, di quella squadra leggendaria e paradigmatica e irripetibile e iconica di una stagione meravigliosa, era stato il terzino destro, il gladiatore, il marcatore arcigno e insuperabile. Spalle larghissime, quadricipiti poderosi, stacco imperioso. Il tormento per ogni attaccante, che si aggirasse dalle sue parti. Classe 1939, visse tutta l'epopea di quella squadra voluta e plasmata da Angelo Moratti ed Helenio Herrera. E riuscì a vincere anche dopo, lo scudetto in rimonta del 1971, quando della Grande Inter erano rimasti lui, Facchetti, Mazzola, Jair e Corso. La formazione sopracitata divenne una cantilena, una filastrocca. C'è una scena di Ecce Bombo di Nanni Moretti che lo spiega plasticamente. E fu colonna anche della nazionale Tarcisio Burgnich, campione europeo nel 1968 e vicecampione del mondo nel 1970, passando gli ultimi anni di carriera, nel ruolo di libero, perché aveva anche acume tattico a chili il formidabile difensore friulano. Che la terra gli sia lieve.

C'era una volta Armando Picchi: colonna della Grande Inter. Manca da mezzo secolo

Era nato il 20 giugno del 1935, a Livorno, Armando Picchi. Un brevilineo di costituzione robusta, che aveva giocato per una vita da terzino destro, senza brillare. Tenace nei contrasti, attento nella marcatura. Fino a venticinque anni. Dopo le esperienze con la squadra della sua città e la stagione (1959/60) alla Spal, Picchi approdò all'Inter, che era appena stata affidata alle cure tecniche di Helenio Herrera: allenatore di nazionalità argentina ma randagio e giramondo, ossessionato dal gioco del calcio, colto, spiritoso, istrionico e motivatore sommo. Uno che avrebbe rivoluzionato il calcio italiano e internazionale, conferendo al ruolo dell'allenatore un fascino e una centralità prima mai sperimentate. Chi ricorda i nomi degli allenatori del Real Madrid che aveva appena finito di vincere 5 Coppe dei Campioni consecutive? Ecco, intanto Herrera, con il Barcellona di Kubala e Suarez, quel Real l'aveva battuto due volte per il titolo di campione di Spagna. Ed era stato capace, all'inizio degli anni '50, di vincere due scudetti anche con l'Atletico Madrid. Angelo Moratti l'aveva scelto perché ne aveva riconosciuto le stimmate del vincente. Herrerà, però, del calcio italiano sapeva poco. Al debutto, si era presentato come un offensivista - perché il Barcellona ha sempre avuto una vocazione di quel tipo anche prima di Cruijff - e il suo obiettivo dichiarato era quello di segnare più di 100 gol in campionato: insomma ai ritmi che erano stati soltanto del Grande Torino. Il campo, dove le squadre italiane, pur non tutte, già praticavano un solido calcio di rimessa, suggerì ad Herrera di cambiare spartito. Picchi fu spostato nel ruolo di libero: Herrera ne aveva riconosciuto il carisma, l'innata sapienza calcistica, la facilità di lettura delle azioni, la dote di preveggenza delle traiettorie. Sarebbe divenuto il perno della Grande Inter, specialmente dopo l'arrivo, nel 1961, di Suarez. Picchi, promosso capitano, comandava la difesa e guidava moralmente tutti, Suarez, dirigeva il gioco. E non era catenaccio, perché in quella squadra Facchetti attaccava come un'ala, a centrocampo Corso regalava olio su tela, passeggiando, di Suarez s'è detto, e c'erano gli scatti di Jair e le serpentine ardite di Sandro Mazzola. Attesa e contropiede, a volte, sì. Ma anche attacchi corali contro difese schierate. E, sempre, una solidità difensiva degna de La Rochelle. Quell'Inter, capitanata da Picchi, che telecomandava i compagni della difesa, avrebbe potuto difendere un 1-0 per ore. Arrivarono successi in serie: 3 scudetti, 2 Coppe dei Campioni, 2 Coppe Intercontinentali. Fino al tramonto, improvviso e bruciante del 1967: in pochi giorni una Coppa dei Campioni persa contro il Celtic Glasgow (ma mancava Suarez) e uno scudetto finito alla Juve, per la papera di Sarti contro il Mantova. Herrera e Picchi non si prendevano più. Pare che il Mago fosse geloso della leadership del capitano e del rispetto che i compagni gli portavano. Pare. Picchi andò al Varese. Un anno dopo andò via anche Herrera. E lo stesso Angelo Moratti passò la mano in favore di Fraizzoli. Picchi si preparava ad una grande carriera da allenatore. Prima proprio a Varese, poi nella sua Livorno. Finché lo chiamò Boniperti alla Juve. Prima, però, giocando nella nazionale, durante Italia-Bulgaria del 26 aprile 1968, una caduta rovinosa, la frattura del bacino, una botta tremenda, le cure forse inadeguate. E un dolore che non sarebbe passato più. Fino a diventare un cancro. Il 26 maggio del 1971, mezzo secolo fa, Picchi moriva per un singolarissimo tumore alla costola, dopo aver lasciato - sopraffatto da dolori lancinanti - la panchina della Juve a campionato in corso, dopo che l'Inter aveva appena conquistato il suo undicesimo scudetto. Armando Picchi non aveva ancora compiuto 36 anni. E sono cinquant'anni oggi. Lo stadio del Livorno porta il suo nome.

giovedì 12 gennaio 2017

La nazionale di tutti i tempi: da Zenga a Meazza

Se ne parla in questi giorni, dopo la nazionale di tutti i tempi proposta da Ventura fino a quella indicata da Sconcerti sul Corriere della Sera. Qui sotto propongo la mia, panchina compresa (in tutto 23 giocatori, come ai mondiali attuali, con tre portieri). Zenga in porta, con Bergomi terzino destro marcatore, Nesta stopper, Facchetti terzino sinistro e Scirea libero e primo regista della squadra. A centrocampo Tardelli e l'immenso Valentino Mazzola. Totti 10, a raccordare, con il suo gioco di prima, centrocampo ed attacco, guidato da Meazza centravanti, sostenuto dall'estro di Roberto Baggio e dalla potenza di Riva.

 
ZENGA
 
SCIREA
 
 
BERGOMI                            NESTA            FACCHETTI
 
                       
        TARDELLI                                    V. MAZZOLA
 
 
TOTTI
 
             R. BAGGIO                                           RIVA
 
 
MEAZZA
 
 
In panchina: Zoff, Buffon, Burgnich, Maldini, F. Baresi, B. Conti, Pirlo, Rivera, S. Mazzola,  Berti, Altobelli, P. Rossi, 


venerdì 30 novembre 2012

Elzeviro: 2. Sandro Mazzola, immenso fuoriclasse

Con qualche giorno di ritardo, giunge un tributo a Sandro Mazzola per i suoi 70 anni. Bandiera dell'Inter, primo asso, assieme a Rivera e Riva, di statura internazionale, dopo la strepitosa generazione degli anni '30, Sandro Mazzola, che Brera per sintesi chiamava Mazzandro, è stato tra i pochi calciatori capaci di uscire dalla dimensione del campo di gioco e dei quotidiani sportivi, per entrare in quello che la sociologia degli anni '60 chiamava, con non poca enfasi, "immaginario collettivo". Predestinato, figlio di padre illustre, Valentino Mazzola, capitano del Grande Torino, tragicamente scomparso a Superga nel 1949, Sandro Mazzola seppe farsi strada tra lo scetticismo di tanti, che in lui volevano vedere il giovane raccomandato dalla fama paterna. All'Inter lo volle Benito Lorenzi, il rapidissimo attaccante toscano, terrore delle difese avversarie, che del padre era stato amico ed ammiratore. Esordì in serie A alla fine della stagione 1960/61, diciotto anni e mezzo, contro la Juventus. L'Inter per protesta schierava la formazione primavera e Mazzola segnò il gol della bandiera su rigore. Si riaffacciò in prima squadra, per diventare titolare, nella stagione 1962/63, quella del primo scudetto firmato Helenio Herrera ed Angelo Moratti. Non uscì più di squadra fino al 1977, quando si ritirò. Nel mezzo quattro campionati, due Coppe dei Campioni, con la folgorante doppietta al Real Madrid al Prater di Vienna nel 1964, due Coppe Intercontinentali. Fu centravanti, velocissimo, scattante, dal tiro saettante ed improvviso, eseguito con anticipo di movimento, dal dribbling agile e fulmineo, fu mezzala destra di primissimo ordine, costretto in nazionale a contendere il posto a Rivera, ch'era diverso da lui, dando vita ad una delle rivalità più celebri e letterarie della storia dello sport italiano, ala destra alla fine della carriera. Gol meravigliosi, come quello eseguito dopo infiniti palleggi in nazionale contro la Svizzera. Rispettato in tutta Europa, in tutto il mondo. Nove volte candidato al Pallone d'oro, dove fu secondo nel 1971, campione d'Europa nel 1968, vicecampione del Mondo nel 1970. Il suo stile di gioco divenne proverbiale, come proverbiale era stato lo stile, diversissimo, del padre. Quando si pensa alla storia degli anni '60, il nome di Sandro Mazzola si fa subito, tra i primi. Ecco dieci gol tra i suoi più belli.

martedì 16 ottobre 2012

Le dieci migliori mezze ali della storia

La mezz'ala è il ruolo più difficile del calcio. Un ruolo che ha spesso rischiato di estinguersi, costretto nelle forche caudine del 4-4-2, il modulo meno intelligente mai concepito. Ad ogni modo la mezzala, si scrive pure senza apostrofo, è stato il ruolo di strepitosi interpreti del gioco del calcio. Facitori di gioco e goleador, incursori e registi, qualche volta anche interdittori. Insomma una summa del gioco. Segue classifica. Cosa ne pensate?
*Aggiornamento del 21 marzo 2023.
1. Meazza
2. Denis Law
3. Didì
4. Kocsis
5. Gerson
6. Hector Scarone
7. Sandro Mazzola
8. Iniesta
9. Neeskens
10. Socrates
11. Kubala
12. Zsengeller
13. Gunter Netzer
14. Modric
15. Bernd Schuster
16. Giovanni Ferrari
17. Gren
18. Loik
19. Ballack
20. Scholes
21. Gerrard
22. Giresse
23. Lampard
24. Antognoni
25. Bryan Robson
26. Tardelli
27. Seedorf
28. Junior
29. De Bruyne
30. Overath
31. Cerezo
32. Prosinecki
33. Scifo
34. David Silva
35. Toni Kroos
36. Nicola Berti
37. Souness
38. Boban
39. Rakitic
40. Pogba
41. Willy Van de Kerkhof
42. Olaf Thoen
43. David Platt
44. Joao Pinto
45. Mario Basler 
46. Wijnaldum


giovedì 2 febbraio 2012

Calcio: quanto conta un allenatore?

Conta molto un allenatore di una squadra di calcio. Nel bene e nel male. Perché, di là dalla tattica da sempre sopravvalutata, decide chi gioca e chi no, ma, sopratutto come un giocatore deve giocare, in quale ruolo, quanto tempo, con quale libertà. E, da quando ci sono le sostituzioni, disattendere un ordine della panchina può costare caro, già a partita in corso. Sandro Mazzola ama raccontare che una volta, ancora giovane, Herrera gli chiese di giocare centravanti, nel ruolo che l'avrebbe consacrato asso della Grande Inter e simbolo del calcio italiano, ma, Mazzola era stato nelle giovanili centrocampista e tale si sentiva. Così giocò, e bene, a centrocampo. Primissimi anni '60, le sostituzioni non erano ancora possibili, Mazzola giocò tutta la partita. Herrera si congratulò per la prova, ricordandogli, però, che da quel momento in poi avrebbe dovuto agire da punta. Oggi, non sarebbe possibile. Ci sono allenatori che sostituiscono anche un subentrato: Capello l'ha fatto più di una volta. Il potere di un tecnico, oggi, è notevolissimo. Certo, c'è tecnico e tecnico. Trapattoni trasformò Matteoli da trequartista incostante a grande regista difensivo nell'Inter dei record, come Berti da ala destra, doppione di Bianchi, in formidabile interno assaltatore. Zeman fece di Totti un grandissimo atleta, spianandogli una carriera leggendaria. Mazzone tolse Pirlo, lento sul passo, da dietro le punte, e ne fece un sontuoso architetto del gioco. Tutto questo nel bene. Altre volte, l'allenatore sbaglia e chiede, pensate a Roberto Baggio con Ulivieri, di coprire come un mediano, salvo ravvedersi alla fine, oppure, pensate sempre a Roberto Baggio con Lippi, tiene l'asso in panchina per fare spazio a Nello Russo. Insomma, l'allenatore conta eccome. A condizione che metta ogni giocatore nella condizione di rendere al meglio. Ci riuscirà Ranieri con Sneijder?

martedì 8 novembre 2011

Perché la Lazio può vincere lo scudetto

La Lazio può vincere lo scudetto. Non tanto per il fatto di essere ora in testa alla classifica, in condominio con l'Udinese. Il che pure conta qualcosa. Ma, piuttosto, perché il gruppo biancoceleste è davvero forte. Soprattutto tra centrocampo ed attacco. Hernanes è la miglior mezzala del campionato, mezzala classica, un otto puro per intenderci, capace di corsa e forte di tecnica e con il talento, oggi sempre più raro, di calciare molto bene dalla distanza. Lampard, che tutto sommato ha carrateristiche analoghe, tiene a galla il Chelsea a 33 anni, propriamente per l'attitudine ad interpretare un ruolo antico, che fu di Loik e di Denis Law, di Sandro Mazzola seconda maniera e di Neeskens, certo ciascuno a suo modo. Ledesma, per tornare alla Lazio, è un mediano di qualità, Brocchi corre ancora molto. Davanti, poi, Klose, fortissimo, è in stato di grazia, Cissè sa fare decisamente meglio di quanto abbia mostrato finora e sono convinto che tornerà presto decisivo, da Rocchi possono venire gol preziosi e via dicendo. La difesa, come sempre nelle squadre di Reja, è accorta, Marchetti è un grande portiere. Insomma, magari con un paio di innesti mirati a gennaio, la Lazio può davvero vincere quello che sarebbe il suo terzo scudetto. Stiamo a vedere.